sabato 17 giugno 2017

DI TOMMY CALDWELL


Perché la free solo di Alex Honnold su El Capitan mi ha fatto paura. 


 
Alex Honnold una volta mi ha confidato che da qualche parte nel suo furgone, seppellito sotto centinaia di fogli tra schede di allenamento e relazioni di vie, ha una elenco di traguardi da raggiungere. In cima a questa lista ci sono due lettere, "FR", che stanno per Freerider, la via più famosa sulla parete di quasi mille metri [3000 piedi, 914m] di El Capitan. La via è molto al di sotto del limite di Alex, ma il suo obiettivo era di scalarla in free solo - cioè senza corda - una cosa mai tentata prima.
Immaginavo che ci avrebbe provato prima o poi, ma non sapevo se incoraggiarlo ad andare avanti con il suo piano o se dissuaderlo dal correre quel rischio. Lo avrei visto compiere un atto di maestria, una pietra miliare per la nostra generazione, o giocarsi un round alla roulette russa? Nella nostra comunità di scalatori, Alex è quello che più di chiunque altro ha portato in primo piano le discussioni sul rischio. Qualcuno potrebbe pensare che, come suo amico intimo ed El Capitan-dipendente io stesso, potrei avere un’idea di cosa significhi scalare in free solo Freerider. E invece no. Nessuno ce l’ha, eccetto lui.
Sabato 3 giugno, Alex si è svegliato nel suo furgone alle prime luci dell’alba. Ha guidato con calma nella Yosemite Valley e senza null'altro che scarpette d'arrampicata e sacchetto della magnesite, ha cominciato l’ascesa su El Cap. Il cielo è azzurro, non c’è vento. Nonostante avessi passato parte della settimana precedente a Yosemite per aiutarlo con gli ultimi preparativi, poi sono tornato a casa mia in Colorado, a giocare con i miei bambini e a cercare di non riflettere troppo su quello che Alex stava per fare, perché era un pensiero davvero spaventoso.
Leggendo i titoli dei giornali è facile incappare nei cliché sugli arrampicatori - che siamo degli scapestrati, a caccia del brivido, drogati di adrenalina. Niente di più utile per provocare una serie di conati alla maggior parte di noi. Arrampicare significa avere una relazione profonda con alcuni degli ambienti più suggestivi del mondo, non un presuntuoso tentativo di soverchiarli. Non posso vantarmi di conoscere tutto quello che passa per la testa di Alex, ma una cosa la so di sicuro: lui scala per vivere, non per sfidare la morte.
Credo che Alex abbia scalato, passo dopo passo, più roccia tecnicamente difficile di chiunque altro nella storia. Ha ripetuto Freerider almeno una dozzina di volte, provando i passaggi più difficili al punto da poterli fare bendato. Ma scalare in free solo è più una questione mentale che fisica. Oltre a fattori ovvi come l’esposizione vertiginosa e vari imprevisti (pensate a una presa che si rompe, o a un uccello che vola via da una fessura), la scalata su granito richiede una tale precisione da non poter essere affrontata se non in completa lucidità.
Alex mi ha raccontato che non è mai volato all’improvviso - cioè senza avere avuto prima la sensazione che stesse per accadere. Quando gli ho risposto che a me è successo almeno dieci volte, mi è sembrato confuso, come se non gli tornasse qualcosa. Poi mi ha chiesto perché non scalavo in free solo. "Sarebbe così facile per te, sai che non cadresti mai su un 7a", mi ha detto. Ogni tanto parlavamo di Freerider, sapevamo entrambi che per lui significava raggiungere il suo obiettivo più ambito. Ma si era sempre mostrato titubante. Ci sono alcuni punti su cui non si sentiva sicuro, e troppe persone si aspettavano che la affrontasse. Lui invece voleva farlo per se stesso, non per le aspettative altrui.
L’argomento è rimasto latente per anni. Poi l’estate scorsa, durante un nostro viaggio in Marocco, Alex mi ha detto che era pronto a provarci. Ho chiuso gli occhi, fatto un respiro profondo, e gli ho chiesto come potevo dargli una mano. Lui, con la sua solita nonchalance, ha risposto: "Voglio solo vedere se posso lavorarla fino al punto di sentirmi sicuro". Durante il viaggio sembrava spinto da un desiderio profondo che non avevo mai visto in lui. Abbiamo arrampicato così tanto che le dita dei miei piedi sono rimasti insensibili per un mese.
Dopo il Marocco, io sono tornato in Colorado e Alex nello Yosemite per continuare la sua preparazione. Mi sentivo tranquillo per quanto riguardava tutta la faccenda. E poi una notte lo scorso ottobre ho avuto un incubo terribile. Alex che si presentava alla mia porta con gambe e braccia a pezzi. E stava lì a sanguinare sul pavimento e a dirmi che era caduto e troppo imbarazzato per chiamare l’ospedale. Mi sono svegliato senza fiato. Il giorno dopo squilla il telefono. Era Alex che chiamava per dirmi che era caduto facendo un giro di prova su Freerider e si era preso una brutta storta alla caviglia. In quel momento tutto è diventato reale.
Io e mia moglie abbiamo caricato i bambini nel nostro furgone e in 20 ore siamo arrivati allo Yosemite. La caviglia di Alex era così gonfia che sporgeva dal bordo della scarpa. Riusciva a malapena a camminare, ma era comunque convinto di voler fare un tentativo su Freerider. "Continuerò ad allenarmi al trave e a scalare su roba facile finché non guarisce. Forse ce la posso fare prima della fine della stagione". A quel punto non volevo più che ci provasse, mi sembrava troppo.
Un mese dopo, a metà novembre, ha fatto lo stesso un tentativo. Io ero ripartito, non volevo assistere. Mi sono sentito sollevato quando mi hanno detto che ha fatto solo qualche decina di metri prima di rinunciare perché non se la sentiva. (È tornato a terra usando una serie di corde fisse).
Sette mesi dopo, Alex progettava di riprovarci. Sono arrivato allo Yosemite la settimana del Memorial Day [29 maggio N.d.T] e abbiamo fatto un giro su Freerider con la corda. In alto sulla parete, ansimante e sudato con i piedi spalmati su delle scagliette che scricchiolavano al mio passaggio, ho guardato il terreno a 900 metri di distanza e ho cercato di trasferirmi mentalmente nella testa di Alex. Come mi sentirei se fossi senza corda? Onestamente, sapendo che presto avrebbe probabilmente portato a termine l’impresa più importante nella storia del free solo, non riesco a immaginarlo.
Qualche giorno dopo (sabato scorso) Alex ha liberato la via in tre ore e 56 minuti. Le poche persone che ne erano al corrente non hanno sparso la voce, sapendo che lui non voleva trasformarlo in un circo. Ha raggiunto la vetta dove lo aspettavano alcuni amici, poi mi ha telefonato mentre scendeva sul sentiero. Ero al parco giochi con la mia famiglia, in Colorado. Mi ha detto che si sentiva felice come non lo era mai stato, ed era grato a tutti. "Sei arrivato al momento giusto e mi hai dato una mano. Era quello che mi serviva" mi ha detto. "Dì a tua moglie che la ringrazio per averti concesso qualche giorno libero".
La salita in free solo su El Cap era l'impresa più attesa dalla nostra generazione, ma questo solo perché c'era Alex. Sono in pochi quelli con il potenziale di completare un impresa del genere, e purtroppo alcuni di loro non sono più tra noi. In passato avevo definito l’idea come l’equivalente dello sbarco sulla luna per l’arrampicata in free solo. Oggi, a fatto compiuto, credo che sia la definizione più azzeccata. Un momento decisivo per la nostra generazione.
Parlando di controllo mentale, sono convinto che questa sia una delle vette più alte raggiunte nella storia dello sport. Spero che altri vengano inspirati dalle dedizione di Alex per l’eccellenza e l’abilità di vivere senza paure, ma meno dalla sua inclinazione nel prendersi dei rischi. Nel nostro mondo abbiamo già avuto troppe perdite. Parlando di talento, preparazione e padronanza nella scalata, Alex spicca tra tutti. Ha portato un elemento di saggezza in questo tipo di scalata come nessun altro avrebbe potuto fare, e probabilmente non farà mai.

1 commento:

Anonimo ha detto...

Adesso tutto ha un senso. Grazie delle spiegazioni.